Poiché diversi studiosi hanno paragonato l’America all’impero romano, anche noi accettiamo il rischio dell’anacronismo e volgiamo lo sguardo al momento in cui i Cesari affrontarono e gestirono vaste ondate migratorie nei secoli in cui lo Stato attraversava una grave crisi demografica ed economica. Forse troveremo da quegli eventi così lontani utili indicazioni per l’oggi.
CITTADINI NEL MONDO
Washington. Nel 2017 si sono ribaltati i paradigmi culturali della destra e della sinistra: la destra, ad esempio i repubblicani americani, una volta radicalmente liberisti, sono tornati all’isolazionismo, la sinistra, ad esempio i democratici statunitensi, sono divenuti liberisti.
I repubblicani vogliono ostacolare l’immigrazione, stracciare gli accordi di libero scambio già pattuiti ed impedire la regolarizzazione di 11 milioni di lavoratori stranieri senza documenti.
I cambiamenti in atto nel GOP [Grand Old Party] sono d’importanza storica perché potrebbero preludere a dei profondi mutamenti della scena globale, ma potrebbero anche preludere ad un progressivo ridimensionamento della potenza americana con conseguenze difficilmente misurabili: difatti, una vecchia legge storica sostiene che quando una nazione comincia a rinchiudersi è l’inizio del suo declino.
Durante tutto il 900 gli USA sono stati il paradigma della società aperta, ora invece scelgono la via dell’autoisolamento.
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Il mondo romano. L’Impero romano per secoli, sia per fronteggiare frequenti crisi demografiche, sia per rimpinguare l’esercito, vera spina dorsale dello Stato, accolse o deportò intere popolazioni.
Racconta per esempio lo storico greco del IV secolo d.C. Ammiano Marcellino: “Si diceva che una moltitudine di barbari, cacciata improvvisamente dalle sue sedi, vagava con i propri cari in gruppi dispersi attorno al Danubio. Questi avvenimenti furono confermati dall’arrivo degli ambasciatori dei barbari i quali pregavano e supplicavano che il loro popolo, bandito dalle sue terre, fosse accolto al di là del fiume.
Per i Romani la situazione fu motivo piú di gioia che di paura. L’imperatore poteva procurarsi dalle piú lontane regioni tante reclute da poter disporre di un esercito invincibile. Invece dei soldati, che ogni anno le province inviavano, si sarebbe riversata nelle casse dello stato una grande quantità di denaro. Ottenuto, per concessione dell’imperatore, il permesso di attraversare il Danubio, i barbari venivano trasportati in schiere oltre il fiume, giorno e notte, su navi, zattere e tronchi d’albero scavati. Parecchi perirono annegati perché, a causa della gran massa di gente, tentavano di attraversare a nuoto contro corrente.”
Nel mondo romano, però, il dibattito se accogliere o respingere i “barbari” era vivace e vedeva contrapposti il partito dell’accoglienza e quello della separazione e del respingimento. Racconta ad esempio Tacito che quando nel 48 d.C. l’imperatore Claudio propose una legge per aprire le porte del senato ai Galli, scoppiò un putiferio gli avversari sostenevano che l’Italia non era poi così mal ridotta da non poter rifornire con elementi suoi il Senato di Roma. e all’imperatore suggerivano che i membri dell’aristocrazia gallica godessero pure dei diritti della cittadinanza romana, ma non si prostituissero le dignità antiche e il decoro delle cariche pubbliche.
Claudio, però, confutò le loro tesi ricordando che Roma fin dai primi tempi aveva assorbito genti dalle città e dalle province conquistate, al punto che il confine d’Italia era stato spostato alle Alpi. Perciò era intenzione del principe ammettere in Senato i membri dell’aristocrazia gallica, invece di agire come Spartani ed Ateniesi che tennero sempre separati gli stranieri dagl’indigeni e poi, però, caddero. L’ideologia dello Stato romano era dunque, da un lato di cooptare le aristocrazie dei territori conquistati, dall’altro di reclutare soldati anche tra i popoli che premevano ai confini.
Anche nei confronti degli schiavi, Roma incoraggiava le manomissioni [ossia affrancare gli schiavi] al fine di scongiurare le rivolte, come quella di Spartaco.
Nel 212 d.C. Caracalla, con un celebre editto, concesse la cittadinanza romana a tutti i liberi che vivevano nell’impero.
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Torniamo ai giorni nostri. In tutto il mondo è in atto una forte ondata migratoria dalle aree meno sviluppate a quelle piú avanzate e dappertutto i governi cercano d’arginare il fenomeno, perché se da un lato i Paesi ricchi sanno d’avere bisogno di manodopera, dall’altro hanno paura dei contraccolpi elettorali in quella parte dell’opinione pubblica che teme di perdere occasioni di lavoro. Allo stesso tempo cresce la voglia di alzare barriere protezionistiche contro l’invasione di merci a basso costo, provenienti da Paesi votati prevalentemente all’esportazione, perché si teme che vengano danneggiate le imprese locali che lavorano negli stessi settori: è ad esempio il caso del tessile e dell’abbigliamento, dove i prodotti made in China tendono ad acquisire fette di mercato a spese delle produzioni a chilometro zero.
Dal canto loro, però, le multinazionali hanno bisogno di delocalizzare la produzione in aree dal costo del lavoro piú basso per massimizzare i profitti.
In piú, l’economia di oggi non si basa piú solo sulla produzione di oggetti, ma anche su attività “virtuali”.
Facciamo alcuni esempi:
• Uber, la piú grande compagnia di taxi al mondo, non possiede vetture.
• Facebook, proprietario del social network piú popolare del mondo, non crea contenuti.
• Alibaba, il rivenditore online piú efficace al mondo, non ha prodotti in magazzino.
• Airbnb, il piú grosso fornitore al mondo di soggiorni alberghieri, non possiede una sola casa.
Le aziende di cui stiamo parlando hanno in comune una cosa: tutte hanno creato piattaforme fiduciarie nelle quali l’offerta incontra la domanda per oggetti e servizi che nessuno aveva pensato in precedenza di mettere a disposizione: una camera da letto in piú nella propria casa, un posto a bordo della propria auto. Oppure sono piattaforme comportamentali che hanno generato come sottoprodotto informazioni di altissimo valore (su noi stessi) per i venditori o i pubblicitari, oppure sono piattaforme nelle quali la gente comune può farsi un nome per poi offrirsi al mercato su scala globale.
Che fine farebbero tutte queste imprese se scoppiassero guerre commerciali tra un Paese e l’altro? Quali conseguenze avrebbe sull’intero pianeta l’emergere di conflitti commerciali tra diverse nazioni? Siamo sicuri che ne trarrebbero vantaggio quelli che a causa della globalizzazione e della delocalizzazione delle produzioni han perso il posto di lavoro? Siamo sicuri che sia corretto mantenere in piedi procedimenti di lavorazione obsoleti, piuttosto che riqualificare i lavoratori ed impiegare i perdenti posto in attività piú aderenti alla realtà economica odierna?
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Il Concetto di “economia-mondo” Già dal Settecento si sviluppò un’economia su scala planetaria. Tale modello, denominato dagli studiosi “economia-mondo” attribuiva a ciascuna area del globo una sua funzione nel processo di divisione del lavoro: in alcune aree si raccoglievano le materie prime, in altre si procedeva ad una prima lavorazione, in altre si assemblavano i diversi pezzi… tale fu il modello su cui si basò la rivoluzione industriale inglese del XVIII secolo, dove il cotone coltivato e raccolto in India veniva lavorato a Manchester in modo da produrre tessuti che poi erano rivenduti in tutto il mondo.
Questo processo fu la base per successivi sviluppi che sono giunti fino ai nostri giorni. Molti credono ad esempio che un’automobile sia prodotta in un solo Paese: in realtà, ciò che noi acquistiamo per i nostri spostamenti è il frutto di tante fasi di lavorazione che si sviluppano nei quattro angoli del mondo e che al termine confluiscono in un oggetto marchiato in Francia, Germania o Italia, ma lavorato anche in Cina, Corea, Filippine, Irlanda, Brasile e in numerosi altri Paesi.
Che si tratti allora di prodotti a basso valore aggiunto tecnologico, come può esser una maglietta o ad alta presenza di software, come può esser un’automobile o un computer, comunque è necessaria una forte interrelazione tra Paesi diversi. Senza contare che i mercati sono ormai universali. In Cina vince l’ala tecnocratica e pro business del Partito comunista, emarginando un’opposizione interna che riflette le stesse paure dei no-global occidentali: l’ala sinistra cinese era convinta che il Wto sarebbe stato il cavallo di Troia per la colonizzazione del paese a opera delle multinazionali occidentali.
A partire dal dicembre 2001 la Cina entra nel Wto e le si spalancano davanti nuovi mercati. Ha inizio una storia spettacolare di decollo trainato dalle esportazioni. Sarà uno shock storico. Il miracolo cinese si produce su dimensioni che non hanno precedenti. Dopo la Cina tocca all’India di Sonia Gandhi e Manmohan Singh; anche “l’elefante addormentato” si risveglia alla crescita con una terapia di liberalizzazioni, sia pure meno radicali di quelle cinesi e corrette da robuste dosi di protezionismo.
Ben presto la geografia dello sviluppo si allarga, l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill inventa l’acronimo dei BRICS, aggiungendo a Cindia anche Brasile, Russia e, infine, Sudafrica. Ironia della sorte, la sigla dei BRICS, nata nell’ufficio studi della Goldman Sachs, finisce per materializzarsi in una realtà geopolitica, coi leader di quei cinque Paesi che si riuniscono periodicamente in summit appositi dai quali l’Occidente è escluso.
In un quarto di secolo nasce nei paesi emergenti un ceto medio di 800 milioni di persone, un mercato immenso. Per loro, la globalizzazione ha un segno positivo.
“La globalizzazione – dice l’economista Branko Milanovic – ha reso il mondo meno ineguale nel senso che ha accorciato le distanze Nord-Sud ma all’interno di ogni nazione ha divaricato la sorte dei ricchi da quella di tanti altri.” Ne deriva che qui nel Nord del mondo, dove ci siamo abituati a degli standard di benessere molto elevati e molto costosi, esplode la reazione popolare all’avanzata sulla scena internazionale dei Paesi emergenti. Essa si rivolge contro le élites dirigenti, accusate d’essere tutt’uno con le multinazionali, le grandi banche ed i centri veri del potere.
La linea “sovranista” Se tuttavia nella prima decade degli anni duemila alla globalizzazione si contrapponeva un arcobaleno di forze costituito da sindacati, ONG e gruppi di base, preoccupati per il possibile prevalere delle logiche del “pensiero unico neoliberista”, nella seconda decade, quella che stiamo vivendo, complice anche la crisi economica globale scoppiata in America nel 2008, ha prevalso una linea neonazionalista che punta a separare gli Stati a ridare vita alle sovranità.
Tra i fautori di questa linea, che potremmo definire “sovranista”, vi è un miliardario che si è fatto un nome ed un patrimonio con investimenti a livello globale: Donald J. Trump che ha illustrato il suo pensiero col discorso d’insediamento pronunciato il 20 gennaio scorso: ”Per molti decenni – ha detto il nuovo Presidente – abbiamo arricchito industrie straniere a spese delle nostre; abbiamo difeso i confini di altre nazioni, mentre non ci occupavamo delle nostre frontiere; spendevamo miliardi all’estero, mentre le nostre infrastrutture cadevano a pezzi. Abbiamo reso ricchi altri Paesi, mentre il benessere dei nostri concittadini veniva dissipato. Le nostre fabbriche chiudevano e milioni di operai americani erano lasciati senza lavoro. Il reddito della nostra classe media è stato falcidiato e redistribuito in giro per il mondo. Ma questo è il passato: d’ora in poi una nuova dottrina governerà il nostro paese: prima l’America, prima l’America!”
Al di là della retorica, è possibile oggi tornare alle piccole patrie, alle sovranità nazionali così come si sono sviluppate nel corso dei secoli? È possibile elevare delle barriere commerciali per proteggere prodotti locali dalla penetrazione di merci a basso costo? E’ possibile bloccare il flusso delle delocalizzazioni? È possibile fare a meno del contributo di manodopera straniera disposta a lavorare qui a costi piú bassi, arginando le conseguenze del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione nostrana? È immaginabile che il nostro oneroso sistema di previdenza sociale possa reggersi a lungo senza il contributo di giovani lavoratori provenienti dai cinque continenti che versano i contributi per mantenere i nostri longevi anziani, figli del baby boom degli anni Cinquanta e Sessanta?
I Romani, a loro modo, diedero una risposta a queste domande, aprendo le porte dell’impero e permettendo l’ingresso di popoli che prima venivano chiamati “barbari”, ma che poi furono assimilati: ora tocca alla nostra civiltà scegliere una strada od un’altra, sapendo che a seconda di come ci comporteremo potremo gettare le basi per futuri conflitti, oppure per proficue collaborazioni tra popoli diversi, ma sempre appartenenti al genere umano.
Pier Luigi Giacomoni
22 maggio 2017
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