In questa fase della vita nazionale, così sconfortante e chiusa in un vicolo cieco, qualcuno vorrebberichiamare “in servizio” simboli e persone artefici dell’Ulivo. Abbiamo chiesto ad Arturo Parisi, una delle menti piú lucide e costruttore infaticabile di quella esperienza, di spiegarci che cosa è stato e potrebbe/dovrebbe essere di nuovo l’Ulivo affinché le nuove generazioni possano rinnovare e rinvigorire un cammino ideale secondo noi sempre piú attuale e necessario.
1. Forse era inevitabile che l’esperienza dell’Ulivo non potesse durare perchè è un po’ come l’illusione di creare un virtuoso e duraturo melting-pot fra popolazioni immigrate e locali di diverse culture, religioni, etnie etc…è vero? o non bisogna mai rassegnarsi, in nessun caso?
Mai rassegnarsi. In nessun caso. Continuare a girare senza fermarsi, senza stancarsi, a girare col mestolo la pentola della convivenza. Per fare e rifare ogni giorno di questa convivenza una comunità. Avete detto bene. Melting pot. L’immagine coniata per descrivere il sogno americano, lo stesso iscritto nell’articolo 3 della nostra Costituzione, il progetto di fare di un insieme di persone una Nazione Nuova, in nome della comune e uguale cittadinanza “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Melting pot resta ancora, anche dal mio punto di vista, la definizione migliore per descrivere piú che l’esito la stessa azione politica. La sua grandezza, la sua fatica, la tensione che è all’origine della sua ambizione, il metro che ne misura continuamente il risultato. Come ogni metafora all’inizio sembra una immagine superficiale. Poi se ne scopre pian piano lo spessore.
Quanto all’Ulivo continuo anche io a chiedermi cosa sia mai stato. E a seconda delle provocazioni mi do risposte diverse. Me lo chiedevo appunto ieri confrontandomi con Andrea Cangini che, reagendo all’idea di un rilancio evocato da una supposta ridiscesa in campo di Romano Prodi, lo riduceva a nient’altro che un mito. (Il mito dell’Ulivo, QN -Resto del Carlino, 18.6.2017 p.1)
L’Ulivo: un gioco da illusionisti?
Come potrebbe mai ritornare – si chiedeva – una cosa che nella realtà fu al massimo “un gioco da illusionisti” “una geniale trovata di marketing politico”? E aggiungeva, come altre volte in passato, anche questa volta “si tratta, appunto, di miti: narrazioni fantastiche, favole, leggende. Espedienti retorici tesi a sublimare le frustrazioni del presente dilatando a dismisura i confini naturali di una presunta età dell’oro passata.” Arrivando a confrontarlo nientedimeno che col “mito della Resistenza” per chiedersi come potesse ancora sopravvivere dopo ventidue anni?
E in effetti lo capisco. Per chi come lui non può che descriverlo da fuori, ricostruendone i passaggi nella cronaca politica, o cercare negli atti di governo la prova della sua esistenza, o nella quantità elettorali la misura della sua consistenza, è difficile dire cosa l’Ulivo sia stato, e non chiedersi quindi se sia mai esistito.
NO: Il frutto della maturità di una generazione
Quello che i Cangini fan fatica a capire è che quello che può apparire null’altro che come un attimo fuggente, quello appunto che continuiamo a chiamiate Ulivo, quello statu nascenti, che Alberoni descrisse mescolando e sovrapponendo le categorie e le esperienze del movimento e dell’innamoramento, non può essere spiegato senza arretrare nel tempo dagli anni ’90, prima agli anni ’70, e poi ancora indietro agli anni ’60, agli anni dei movimenti e agli anni del Concilio. Gli anni nei quali la prima generazione post-bellica, quella che viene identificata col baby-boom, si mise in moto lasciando alle sue spalle, non senza traumi profondi, le vecchie appartenenze, (penso soprattutto al mondo cattolico e al mondo comunista) per cercare e ritrovarsi, quasi come gli immigrati nell’America del melting pot – quella a cavallo tra l’800 e il ‘900 – in un Nuovo Mondo, quello delle fabbriche della nuova Italia e delle scuole della istruzione di massa.
Ma questo Cangini non può capirlo, lo dico con rispetto, perché nato appunto a Concilio concluso, e appena adolescente quando il calore dei movimenti si era ormai definitivamente spento. Sì, fu durante quei lunghi decenni preparatori che il melting pot, il crogiuolo, la pentola nel quale il popolo dell’Ulivo si mescolò dando vita a quel soggetto nuovo, aveva ribollito a lungo. Senza ricostruire questo lungo periodo preparatorio è difficile capire come l’Ulivo sia stato soprattutto il frutto della maturità di una generazione, della sua scelta di accedere ad un’etica della responsabilità senza rinnegare l’etica della testimonianza, che aveva segnato la sua giovinezza, e, allo stesso tempo sia stato il segno della sua novità dentro quella politica dalla quale si era tenuta lontana, perché regno dei professionisti dei vecchi partiti e dominio delle tradizionali culture politiche.
2. Esiste oggi una qualche possibilità che qualcosa di simile all’Ulivo, opportunamente aggiornato, possa ricrearsi?
Se l’Ulivo è stato figlio di una storia, di quella appunto che ho provato ad evocare, dobbiamo riconoscere che quella stagione è finita.
Questo non impedisce di immaginare che una esperienza simile sia stata quella che ha accompagnato il viaggio della generazione nata trent’anni dopo quella del dopo-guerra. Penso ai nati a partire dal 1975, quelli che hanno esordito alla politica appunto negli anni dell’Ulivo, quelli che hanno votato per la prima volta con la regola maggioritaria scegliendo sulla scheda tra simboli tutti diversi da quelli che avevano segnato il lungo viaggio della generazione per la quale l’Ulivo era stato, prima che un segno, un bisogno e una conquista.
La generazione che si è appunto ora messa alla prova tra tentativi non meno generosi di quelli che animarono i giovani dei movimenti degli anni ’70 e tra errori non meno gravi di quelli nei quali, in quegli stessi anni, in tanti finirono travolti a causa dell’estremismo settario e della violenza politica. Un viaggio nel quale sono chiamati in gioco la maturità e la novità che ho associato all’Ulivo.
Non parliamo poi del viaggio che attende la generazione dei nati trent’anni dopo attorno al passaggio del millennio, quella che già si appresta a prendere la parola per la prima volta nel voto chne ci attende nell’anno che viene. Un viaggio non menno entusiasmante e impegnativo di quello delle due prime generazioni postbelliche. Basti pensare ai nuovi italiani che assoceranno il primo esercizio del voto al riconoscimento della cittadinanza.
3. Da chi potrebbe / dovrebbe concretamente partire l’iniziativa? Quali punti concreti potrebbero fungere da base programmatica alla luce della evoluzione epocale della realtà?
In politica come in altri ambiti della vita, l’iniziativa non può essere che di chi è disposto, determinato ed è in condizione di portarla avanti. Gli altri possono volta a volta, auspicarla, incoraggiarla e sostenerla ma non è bene che qualcuno alzi una mano diversa dalla sua.
Lo dico pensando a quanti proprio in questi giorni invece di rinnovare l’esperienza dell’Ulivo sembrano guidati dalla idea che questo sia possibile solo richiamando in campo persone, simboli, formule e luoghi che a quella esperienza restano giustamente associati nella memoria.
Una tentazione reducistica e nostalgica dalla quale dobbiamo difenderci.
Mescolare, persone ed esperienze, l’immagine e il compito dai quali abbiamo appunto preso le mosse non sopporta eccezioni. Se c’è un sentimento che sento estraneo a quel che dell’Ulivo ricordo è quello della nostalgia.
Altra cosa sono i punti programmatici, gli unici ai quali dobbiamo affidare la continuità di un cammino. Da una parte l’apertura al futuro ed al mondo, dall’altra quella ossessione per la pari dignità tra le persone, presupposto e obiettivo della nostra idea del vivere insieme.
Arturo Parisi
19 giugno 2017
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