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Enrico Galavotti

Per una democrazia sostanziale: Giuseppe Dossetti

Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti, caduto poche settimane or sono, è servito a riportare l’attenzione su una figura e una vicenda che da un lato presenta senza dubbi un carattere eccezionale e dall’altro viene spesso liquidata con rapidità o con etichette fuorvianti. Ne traccia un profilo essenziale con numerosi richiami alle vicende attuali del nostro Paese Enrico Galavotti autorevole bibliografo di Dossetti, di cui ricordiamo i volumi Il giovane Dossetti e Il Professorino.

Enrico GalavottiGiuseppe Dossetti (1913-1996) si è formato infatti in una stagione segnata dall’esplosione dei nazionalismi e dall’affermarsi dei totalitarismi europei; ha vissuto sin da giovane un’intensa esperienza religiosa, che lo ha messo anzitutto a contatto con le classi più emarginate della sua Reggio Emilia. Agli anni giovanili risale anche la scelta degli studi giuridici, intrapresi a Bologna e proseguiti presso la prestigiosa Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Lo scoppio della seconda guerra mondiale ha coinvolto Dossetti impegnandolo in un intenso programma di riflessione sulla crisi dello Stato e con la caduta del regime fascista ha preso parte alla lotta resistenziale. Alla fine del conflitto si è impegnato attivamente sul fronte politico, partecipando con ruoli di primo piano nella Democrazia Cristiana: è stato membro della segreteria del partito, designato alla Consulta e, immediatamente dopo, ha preso parte ai lavori dell’Assemblea Costituente. In quest’ultimo ambito è emersa la sua grandezza di giurista, perché capace di dare apporti fondamentali per la definizione degli assetti costituzionali dell’Italia uscita dal conflitto: interverrà su questioni cruciali come il diritto di famiglia, del lavoro e della libertà religiosa; soprattutto fornirà un apporto fondamentale per la definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
L’analisi della crisi italiana lo convincerà della necessità di operare anche in ambiti esterni alla politica. Sempre di più, all’inizio degli anni Cinquanta, la sua attenzione si rivolgerà quindi alle vicende ecclesiali: deciderà a questo punto di dare vita a Bologna a un Istituto di ricerca rivolto appunto ad investigare le dinamiche storiche, teologiche e sociali del cristianesimo. Il suo impegno religioso conoscerà svolte importanti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, quando diventerà sacerdote e svolgerà un’intensa attività all’interno del Concilio Vaticano II (1962-1965). In aggiunta a ciò, deciderà di dare vita a una propria famiglia religiosa, impegnata a promuovere una testimonianza di vita cristiana sia in Italia, e particolarmente nei luoghi che furono teatro delle rappresaglie naziste contro i civili alla fine della seconda guerra mondiale, sia in Medio Oriente, nei luoghi originari delle tre religioni monoteiste. Negli ultimi anni di vita riprenderà il suo impegno politico, rivolto a rileggere il testo della Costituzione del 1948, per evidenziarne i punti irrinunciabili e per mettere a fuoco gli aspetti che ancora non avevano ricevuto un’adeguata applicazione.
Prefascismo e irresponsabilità
Una vita dunque intensissima, ricca di incontri e di stimoli; una vita che ad alcuni è apparsa però frammentata, discontinua, ritmata da cesure. Eppure, non è difficile, al di là delle tappe che l’hanno scandita, scorgere i fili rossi che l’hanno attraversata dall’inizio alla fine. Uno di questi è dato certamente da quella che è stata la preoccupazione fondamentale che ha determinato, sin dalle origini, la sua azione politica. Dossetti, cioè, si è speso sin dagli albori del suo impegno civile affinché la democrazia italiana fosse effettivamente tale. E questo per lui implicava necessariamente prendere le distanze da ciò che, prima del ventennio fascista, veniva qualificato come «democrazia» ma che nel suo giudizio non poteva definirsi tale. Già in alcuni incontri clandestini tenuti con colleghi ed amici dell’Università Cattolica, Dossetti aveva espresso una netta condanna dello Stato liberale prefascista, colpevole di una storica latitanza nei confronti dei problemi sociali e soprattutto incapace di contrastare l’insorgere del fascismo. E nell’estate del 1945 insisteva che le cosiddette democrazie precedenti alla guerra erano in realtà strutture costituzionali e parlamentari accessibili «solo a una minoranza di privilegiati». Una vera democrazia, invece, doveva essere «sostanziale» un aggettivo che ritorna frequentemente nelle sue analisi politiche e garantire un «vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale». Apparentemente si trattava di un’affermazione ovvia, ma che invece coglieva un aspetto cruciale per la vita dell’Italia che usciva da una lunga dittatura e da una guerra rovinosa. Dossetti, cioè, chiariva che non si poteva esaurire l’idea di democrazia nella periodica chiamata dei cittadini alle urne, ma si doveva progettare e realizzare un sistema in cui la costruzione del consenso politico e la materiale esecuzione delle decisioni avvenisse attraverso meccanismi trasparenti, fondati su una effettiva legittimazione popolare e, in ultima analisi, responsabili di fronte alla collettività. Certo, occorreva anche una lunga opera di educazione che rendesse gli italiani troppo a lungo trattati, anche con il concorso dell’autorità ecclesiastica, come soggetti perennemente minorenni capaci di prendere in mano il proprio futuro.
In fondo si può davvero dire che per Dossetti l’essenza ultima del fascismo andasse individuata nella sua fondamentale irresponsabilità: nel senso che esso esprimeva nel modo più compiuto una forma di governo in cui i gestori del potere non godevano né ambivano ad alcun mandato popolare e operavano esclusivamente nell’interesse di alcune lobbies selezionate. È per questo che Dossetti ha sempre tenuto alta la guardia di fronte al rischio di una involuzione fascista dell’Italia: perché sapeva che il vero pericolo non giungeva e non sarebbe giunto dai nostalgici degli «stivaloni» o dai pellegrini di Predappio, bensì da quei settori economici e politici che miravano a svuotare la democrazia dal di dentro, mantenendone intatto l’involucro esterno, per perseguire interessi particolaristici. Giungerà così a criticare l’operato della Confindustria, che anche se non era legata ad alcun partito, «tutti i partiti lega a sé o compenetra con numerosi tentacoli»: così un organismo che era sorto come tutore della libertà economica diventava, nella sostanza, «un gruppo oligarchico di monopolio nel campo della impresa come il suo contrapposto, il sindacato operaio, lo è nel campo del lavoro». Il pericolo del fascismo era quindi sempre ricorrente e poteva emergere anche laddove era più impensabile trovarlo: anche nelle affermazioni di un assessore della giunta comunista di Bologna [Renato Cenerini n.d.r.], accusato appunto da Dossetti negli anni Cinquanta di mostrare un «temperamento psicologicamente fascista».
È esattamente sul nodo della responsabilità, che investiva direttamente la concezione del partito, che si stabilirà da subito e sino alla fine della sua attività politica, una difficile dialettica con De Gasperi: mentre Dossetti pensava e voleva la Democrazia Cristiana come un partito strutturato e forte, capace di generare e dettare una linea politica, il leader trentino lo vedeva più semplicemente come una organizzazione che doveva garantire al governo in carica la sua sussistenza. Dossetti, insomma, pensava ad un partito capace di elaborare un proprio pensiero sulla realtà circostante e che potesse muoversi con autonomia sia rispetto ai condizionamenti internazionali derivanti dalla Guerra Fredda, sia rispetto alle indebite intromissioni della gerarchia cattolica (le definirà «invincibili» e «indicibili») nell’ambito della politica italiana. Così, anche le sue note perplessità rispetto al Patto atlantico erano ispirate proprio dalla preoccupazione che la neonata democrazia italiana non abdicasse ad un proprio potere fondamentale quale quello dell’autonomia in politica estera: così come aveva fatto in precedenza stipulando patti o alleanze che ne avevano determinato infine il coinvolgimento nelle due guerre più devastanti della storia dell’umanità.
Non lasciar regredire la democrazia
Le crescenti difficoltà incontrate nel corso della sua attività politica e la contestuale convinzione che i problemi dell’Italia nascessero più a monte e cioè dal peso che la crisi del cattolicesimo italiano esercitava sugli assetti politici e sociali della penisola lo spingeranno, tra il 1951 e il 1952 ad abbandonare l’impegno politico diretto. E prendendo congedo esprimerà ancora una volta la convinzione che in Italia fosse mancata, da parte di chi ne aveva la responsabilità, una seria riflessione sull’essenza più profonda del fenomeno fascista: non come banale esercizio di erudizione, ma proprio come profilassi per impedire che il paese incappasse di nuovo, seppure in altre forme, in tale fenomeno. È per questo che nel 1994, interrompendo un silenzio durato decenni, Dossetti ha ripreso ad intervenire su tematiche politiche: era persuaso che fosse in atto una «incubazione fascista» (si esprimerà letteralmente così in un intervento tenuto al clero di Pordenone) che era indispensabile stroncare sul nascere; soprattutto occorreva che i cattolici non commettessero gli stessi errori che, settant’anni prima, avevano spalancato le porte alle camicie nere.
La Costituzione italiana presentava indubbiamente limiti che Dossetti non aveva difficoltà a riconoscere e per i quali aveva immaginato anche delle possibili soluzioni: ma in ogni caso rappresentava a suo modo di vedere un patto sacro ed eterno, fondato anzitutto sui milioni di morti che la Seconda guerra mondiale aveva lasciato dietro di sé. Non era quindi il caso che essa venisse ridotta a merce di scambio per il perseguimento di interessi tutt’altro che votati al bene comune o che appunto fosse svenduta a chi, in ultima analisi, consapevolmente o meno, del fascismo aveva mutuato esattamente le prassi operative e culturali più profonde.
Enrico Galavotti

Dossetti, in ultima analisi, lasciava intendere che la democrazia italiana non era una realtà irreversibile e data una volta per tutte, ma poteva appunto regredire al punto di estinguersi: era come una giovane creatura, che andava accudita giorno dopo giorno, che esigeva vigilanza, intelligenza e competenza. Nel momento del distacco l’eredità che Dossetti affida a tutti indistintamente è quella di una dilatazione del cuore e della mente, nella ricerca sempre nuova e creativa di traguardi più alti di vita spirituale e sociale. Se ci lasciassimo indurre a ritenerlo un dispensatore di utopie, disperderemmo la sua più autentica testimonianza cristiana e civile: l’impegno rigoroso a riconoscere i “segni dei tempi” e a scrutare l’avvenire per costruirlo con passione.
Giuseppe Alberigo
(da Il Resto del Carlino 18 dicembre 1996)

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